Alice, 17 anni dopo

Henriette Molinari


Henriette Molinari (in centro, nel riquadro in alto a sinistra)
e ricercatrici con cui ha lavorato

 

Ho accolto con molto piacere l’invito di Sara a “rileggere” il libro di Agnese, 17 anni dopo. Pensavo di ricordarmi perfettamente quel libro, ma ho comunque iniziato a rileggerlo con molta curiosità, pensando che forse Agnese-Alice mi avrebbero aiutato a rileggere la mia storia scientifica, su cui, come Alice nel libro, mi interrogo.

Adesso che ho trovato il coraggio di andarmene dall’Università, e di questo dirò, in qualche modo ho assunto lo stesso punto di vista dell’io narrante, Alice, ho cambiato sistema di riferimento come direbbe lei, ho dato le dimissioni, sono andata via …così come Alice se ne è andata dai suoi laboratori.

Pensavo di ritrovare nel libro l’unica cosa che mi sembrava di aver visto 17 anni fa e cioè tutta la storia del mio disagio, del disagio delle donne, dentro il tempio della Scienza, quasi il libro fosse solo il proclama della nascita di un sindacato delle minatrici della scienza…, perché la solitudine e le difficoltà e la percezione di essere in una prigione da cui non potevo e non sapevo  uscire, mi facevano cercare solo i segni della sofferenza delle altre….Per rincuorarmi e darmi un po’ di valore avevo bisogno, prima di tutto, di fugare il sospetto che fosse l’inadeguatezza scientifica a farmi sentire così estranea, a provocarmi quella fatica estrema di vivere all’interno dei laboratori scientifici.

Il mio sentirmi “estranea”, così come racconta Alice, era legato ad avere a che fare con regole e modalità di pensiero totalitarie, estranee, assunte come necessarie, non eludibili e non modificabili. “Non mi sarei mai permessa, dice Alice ripensando agli inizi del suo percorso scientifico, non avrei mai osato pensare ad altri possibili approcci al sapere scientifico” (p.19). 
Nella mia precedente lettura del libro di Agnese scrivevo “Ho finito di leggere il libro andando a una riunione di lavoro e mi ricordo l’eccitazione con cui mi dicevo, ma è così, è tutto proprio così, com’è intelligente” e pensavo solo e unicamente alla descrizione del disagio, cercavo solo la complicità nella sofferenza.
Adesso mi sono chiesta come potessi essere cosi cieca.

La rilettura che ne ho fatto mi ha stupito, ho iniziato a pensare che in quel libro sì c’è anche il racconto di un disagio, ma c’è una grandissima complessità, ci sono mille spunti di riflessione che mi si affollano alla mente così disordinatamente che credo non riuscirò a ordinare, un prima e un dopo, un disegno preciso… i miei pensieri richiederebbero non so quante pagine e più consapevolezza per essere descritti.  Mi sembra così chiaro ora tutto quello che leggo, così chiaro come “doveva essere apparso l’universo a Newton”… c’è sì la storia delle donne che dovunque si portano dietro un corpo pesante, pensieri pesanti, ma c’è anche il ripercorrere la storia delle donne per iscriverla nel registro della Scienza.. per segnare una traccia che porti a ritrovare un filo che, come succede ad Alice, permetta una possibile riunificazione di parti di sé.. e poi il libro ci racconta, e non capisco come prima non me ne fossi accorta,  il grandissimo amore di Alice per la Scienza che è “passeggiare nei giardini aristotelici tra corpi eterni e incorruttibili; liberarsi della carne, trascenderla in un’esaltante spiritualizzazione; è l’orgoglio e l’eccitazione della padronanza del formalismo matematico, di appartenere a quei pochi abitanti di un universo di cristallo, è un senso in più, e ’amore: lo sai Einstein, dice Alice, quanto ti ho amato e quanto ti amo ancora

Per riordinare i miei pensieri farò come quando scrivo un articolo scientifico: spesso ho fatto così tante misure che non so come fare a raccontarle tutte in un susseguirsi logico, perché tutti quei dati rispondono, più che a un disegno finale, alla necessità di tranquillizzarmi sui dubbi, di trovare spiegazioni a ogni più minuscola osservazione. E così divido sempre il mio articolo in tanti piccoli capitoli, questo mi permette di raccontare tutto, di tranquillizzare i referee che non ho lasciato niente di intentato, e poi …cerco di scrivere le conclusioni.

Sogno
Voglio partire dal sogno che ho fatto proprio quando ho cominciato a rileggere il libro di Agnese.
C’è un mostro che io so che mi sta cercando. Sono in Germania a lavorare e ne parlo in macchina con una mia collega che è molto molto grassa. Arriviamo in una casa, ci spranghiamo dentro ma nonostante ciò il mostro, che è in realtà un giovane dall’aria molto aggressiva, arriva ed entra lo stesso. Io chiamo la polizia (faccio in realtà il 118) e dico che c’è il mostro e da quel punto in poi mi sento sicura perché so che la polizia sta arrivando e quindi decido che farò finta di essere gentile con il mostro e gli do la mano che lui mi tende. Curiosamente come gli do la mano lui si trasforma in un omino-bambino con la faccia di un bambino di un fumetto che leggevo da piccola, coi capelli rossi, che mi fa pensare a uno di quegli sposini di cera che si mettono sulle torte nuziali, e mi fa un sorriso felice e riconoscente di essere stato preso per mano….

In mia presentazione a un incontro su Donne e Scienza avevo scritto “e se questi anni spesi a combattere i mostri mi avessero fatto diventare un po’ mostro?” Quel mostro è la mia rappresentazione degli abitanti dei laboratori scientifici, gli alieni come li chiama Alice, mostri forse sono i guardiani del tempio, dove nessuno entri che non sa di geometria, ma mostro è anche e soprattutto quella parte di me che io temo possa essere complice degli alieni. Adesso riesco finalmente a vedere quanta passione e quanto amore ho nel fare scienza, riesco per la prima volta a vedere che lì c’è anche la mia identità e non è un’identità presa a prestito da nessuno. E questo prima di tutto leggo oggi nel libro di Alice.. (p. 84) “Perché la curiosità, l’ansia di sapere, che sono state mie e oggi di mia figlia, di Mary, di quante non conosco, non devono essere un’eco degli stupori di antiche donne, non paghe solo dei loro ventri gonfi? E’ questo, si, il punto importante è questo che devo dire ad Alice-figlia: la nostra curiosità non è stata presa a prestito dagli uomini”.

E così inizia il percorso di Alice di “ricostruzione-rilettura” di un passato di sapienza delle donne.

Alice e il mondo delle incombenze domestiche. Ma forse è scienza….
Sembra che ci sia un’incompatibilità tra scienza e maternità, incompatibilità tra essere una scienziata e sporcarsi le mani con i lavori femminili, la scienza non può tollerare certe commistioni!
Ma le descrizioni di Alice delle incombenze domestiche sono delle vere e proprie osservazioni scientifiche, sono la parte sperimentale di un articolo scientifico (si chiamano Materials and Methods) così la precisione con cui si descrive come si stira una camicia, come si lavano i piatti, come si lavano i panni, come si ricama sono un protocollo scientifico ripetibile e ripetuto dove si descrive come è stata fatta la reazione, quali i reagenti, la loro concentrazione, i tempi di reazione, le procedure di purificazione, i controlli eseguiti sui prodotti ottenuti… è il tentativo di Agnese-Alice di iscrivere il sapere femminile, confinato nel mondo donnesco, nel piccolo mondo terreno della cura, nel mondo del sapere scientifico, è il primo passo nella ricerca di un filo conduttore…
Questo è un nodo fondamentale. Leggo nella narrazione di Alice anche l’orgoglio di quel sapere tramandato, non solo la vergogna di una provenienza poco illustre, come quando da piccola anch’io vedevo la mia mamma stirare e se pure a volte ero ammirata dal risultato, e già non l’avrei mai ammesso, pensavo che quella abilità era il nulla.
Io provengo da un mondo molto diverso da quello che descrive Alice, il suo è un mondo contadino, un destino femminile annunciato e prefigurato nell’ordine delle cose…. Io provengo, da parte paterna, da una famiglia di scienziati, tutti più o meno importanti, l’unica donna della famiglia la zia, non si era mai sposata per restare la vestale della grandezza del padre, mio nonno, un chimico importante,  non essendo stata capace lei di produrre grandezze da sola …. Nessuno mi aveva mai prefigurato un destino femminile nella cura della famiglia, anzi mi si prospettava solo la necessità di fulgori scientifici… Ma esattamente come per Alice il problema è che la mia mamma non aveva nulla di queste grandezze… Mia madre diceva sempre che avrebbe voluto studiare ma le vicissitudini della vita gliel’avevano impedito, e questo fatto in realtà un po’ la sminuiva ai miei occhi. Lei era il rispecchiamento impossibile, mortale… E’ vero che io, noi, quelle della nostra generazione, proveniamo da un assenza di eredità a cui riconoscere valore. Mi sono improvvisamente ricordata che da piccola mi dicevo “se almeno la mia mamma fosse professoressa..” con la certezza che questo avrebbe potuto garantirmi di essere più brava o più intelligente. Così, rileggendo il libro di Agnese, mi sono accorta per la prima volta che non è stata tanto la grandezza scientifica inarrivabile dei modelli paterni che mi ha reso così insicura, o non solo quella, quanto la mancanza di un modello femminile altrettanto grande a cui ricorrere.

Le paure e le dissonanze
Dice Alice alla figlia “Avevo paura. Avevo un timore reverenziale degli scienziati e dei loro libri. Credevo che la scienza e il metodo scientifico fossero solo quelli…del tuo professore” (p. 19). “Non mi sarei mai permessa, non avrei mai osato pensare ad altri possibili approcci al sapere scientifico… dobbiamo diventare più sicure di noi..” Quante volte, come Alice, mi sono sentita fisiologicamente non adatta alla scienza, questo dubbio mi ha assalito per anni, ogni volta che dovevo andare a parlare a un congresso, ogni volta che dovevo confrontarmi con gli alieni giudicanti. E la paura era sempre enorme, devastante, ero sempre davanti a un gran giurì che doveva decidere della mia passione, delle mie capacità, della mia intelligenza, del mio diritto a esistere. La paura davvero di accorgersi di aver lavorato tutta la vita per scoprirsi prive quell’immaginazione scientifica che fa la grande scienziata. 
Ho avuto paura che la scienza fosse solo un rifugio per non rispecchiarsi in una femminilità priva di valore, un vestito che ti sta benissimo, anche se ti stringe da tutte le parti e non ti lascia respirare, ma appena lo togli non c’è più traccia in te di quella bellezza.
La scienza-rifugio, luogo protetto dalla confusione con la lingua materna, la scienza vissuta come un antidolorifico, con enormi effetti secondari certo, ma in cambio non ti occupi delle tue sofferenze perché vivi dentro l’esperimento, dentro i dati da interpretare che ti fanno dimenticare te stessa, perché sono altri, più grandi, appartengono a un universo più importante. Non è semplicemente avere un pieno di impegni, è essere tutto il giorno immersa nel tempo della tua proteina, non ti accorgi di nient’altro. “Era questo che mi regalava la Scienza, liberarmi dalla carne”.
Manca un anello tra la vita e i fenomeni fisici che si studiano.
Alice sta studiando per i suoi esami di fisica a casa, mentre la mamma e le sue amiche sono nel cortile per il rito della conserva “le loro voci famigliari e i rumori così noti mi tenevano compagnia, quasi contrappunto ai miei sforzi di comprensione di un universo di segni e di pensieri così lontani da quel cortile donnesco” (p. 35). Alice ormai estranea alla comunità di donne, estranea alla comunità scientifica che chissà se vorrà accoglierla. E chissà quante volte si è chiesta (mi sono chiesta), perché ha abbandonato quel mondo per questo viaggio così incerto.

La mia vita è stata scissioni e dissonanze…ritrovare una trama, è questo in cui ora più mi identifico”. Leggo per la prima volta il libro come un tentativo di amalgamare quel corpo di donna che una si porta sempre dietro, senza cercare di nasconderlo, di farlo tacere, di dimenticarselo, senza continuare a vivere la separazione, il mondo della relazione, delle cose di casa, il mondo di noi che veniamo dalle cucine, da una parte, il mondo della scienza dall’altro che richiede una cesura totale con passati oscuri.

Alice e il vuoto della storia delle donne - …e le figlie?.
 “Gli uomini hanno un passato che li rassicura sulle loro potenzialità: qualunque sia l’avventura esistenziale che vogliono osare, dietro di loro c’è un nome che testimonia e li incoraggia a tentare.”
 “Bohr …ride e dice Da dove viene la nostra sicurezza? Hai letto cosa c’è scritto sul timpano del nostro tempio? Era scritto più di duemila anni fa sulla facciata dell’Accademia di Platone. E in quell’Accademia c’eravamo solo noi filosofi, gli scienziati di allora. C’è un filo del sapere il cui capo è seppellito nella storia dell’umanità, tenuto forse nelle mani di chi propose la ruota… il fuoco…. Quel filo non è mai spezzato, ci tiene uniti, anche se, apparentemente, ci fronteggiamo da nemici. Tutti noi siamo certi di appartenere ad un medesimo orizzonte, di appartenere ad uno stesso destino, anche attraverso il tempo. E’ per questo che ci è così facile credere nella parola dell’uno e dell’altro; per questo ci è cosi facile saldare il nostro pensiero a quello di chi ci ha preceduto. Anche nel momento in cui confutiamo quel pensiero in realtà lo riconosciamo come un passaggio, forse necessario, di un percorso che appartiene a tutti noi”

Gli uomini sono abituati a riconoscersi tra di loro”, dice Chiara Saraceno in un’intervista di Anna Simone. “E’ un mondo “omosociale” in relazione all’appartenenza di genere”. Gli uomini fanno rete. Gli alieni valutano i loro progetti, si distribuiscono tra loro i fondi per la ricerca, scelgono per cooptazione…

 “Non si può confutare il nulla lasciato dalle donne. Non ci si confronta con il nulla” “E’ un vuoto di passato, un vuoto che non può essere colmato con una sola vita, neppure una Marie Curie o una Barbara Mc Clintock può restituirci un passato non cancellato ma, piuttosto, che non si è mai reso visibile”, così come ci racconta la storia di tante scienziate impegnate a misurare ….più che a osare scrivere leggi e teorie.
E ciò che fa arrabbiare Alice è che Marie, Barbara e le altre negano un passato alle donne.Marie ha suggerito alle donne di non occuparsi di scienza, e “non te lo perdonerò mai” dice Alice. Anche Barbara ha preso il Nobel e, anche lei, diceva di sé di essere un’eccentricità… Come se anche lei fosse un errore, una mostruosità della natura …”Non puoi chiedere alle donne di essere tutte delle eroine, come te e Barbara… se vogliamo essere in tante ..se vogliamo che la scienza porti i segni del corpo femminile”.
 
Le figlie della nostra generazione, che immagine hanno? Siamo riuscite a comunicare che ci sono anche libertà e piacere nella scienza?
Cosa è successo mi chiedo con le ragazze con le quali ho lavorato? Io nei corsi, nei gruppi, ho molto guardato le studentesse, ho cercato di dar loro valore in tutti i modi possibili, non sempre ha funzionato. Per esempio lavorava con me una decina di anni fa una fisica, bravissima, una dura, ribelle, continuava a dirmi ma come fai a sopportare quello e quell’altro, ma perché non gli rispondi? non riusciva ad accettare il silenzio che secondo lei opponevo all’arroganza. E se ne è andata, proprio quando ero riuscita con acrobazie indicibili con gli alieni, a trovarle un posto permanente di ricercatrice, se ne è andata dicendomi, ma hai visto la vita che fai? Ma questo mi ha fatto riflettere parecchio …ecco perché Alice è arrabbiata con le scienziate del passato, lo sarebbe stata anche con me… loro ci hanno tramandato un’immagine di eroine, di eccentriche. Non c’è solo questo. E qualcosa è cambiato nel mio rapporto le ragazze più giovani. Come ha capito Alice, ho smesso di aspettarmi che ricominciassero dai pensieri sui quali mi ero fermata io, ho smesso di pensare che dovessero accogliere il fardello dei miei dubbi.

Leggerò due commenti, uno particolarmente curioso, lasciati in rete dalle studentesse di un liceo veronese, dove sono stata a parlare di donne e scienza:
Della relatrice di oggi ….ci ha interessato il percorso storico presentato nelle slide della sua presentazione in power point che ha riassunto le principali personalità scientifiche femminili del passato. Ci ha fatto riflettere sull’instabilità del carattere delle donne che spesso sono insicure e hanno poca consapevolezza delle loro enormi abilità. La ricerca è passione e noi la faremo nostra”. Gulp!

“Siamo state colpite dal piacere che la relatrice prova per il suo lavoro…Ci piacerebbe approfondire la sua situazione famigliare e la gestione della sua vita privata in seguito al suo percorso lavorativo e gli orari comportati. Saremmo spinte ad intraprendere il suo percorso solo se la nostra passione per questo lavoro ci portasse a trascurare le difficoltà, gli svantaggi e l’assenza di certezze”.

La passione di Alice per la scienza.
Rileggo quella frase di Alice che ho fatto sempre mia in tutti questi anni “Noi donne siamo come delle immigrate nei territori della Scienza. Veniamo dalle cucine, dalle camere da letto. E siamo abituate a sognare a occhi aperti” e mi viene in mente il passaggio di un’intervista a Fabiola Gianotti, che dice “la fisica l’ho scoperta al Liceo leggendo una biografia di Marie Curie che mi impressionò tantissimo, questo fare fisica tra la cucina e il laboratorio che è accanto alla cucina, giro la minestra e poi vado a controllare il campione radioattivo nella stanza accanto” e sempre Fabiola Gianotti “la fisica va al dunque delle risposte, affronta le domande fondamentali… appena arrivata al CERN sono diventata bravissima a fare le saldature, ho scelto di fare la fisica sperimentale perché da piccola mi piaceva fare le torte, lavorare con il pongo, la manualità è importantissima Agnese-Alice come sarebbero state contente di sentire questa intervista, perché tutta la manualità delle donne la ritroviamo nelle mani della Gianotti. Dunque non è vero che i “vapori della minestra appannano le leggi cristalline della fisica” (p. 42).
Non so se c’è un modo visionario, diverso, di pensare la scienza da parte delle donne, ma adesso non mi sembra importante, ognuna ha un suo modo, quello che ritrovo in comune con Alice è la percezione che la Scienza sia toccare, avere un’esperienza tattile con il mondo, misurare la natura con diversi strumenti, il piacere è così grande che si vorrebbe centellinarlo “il sottile piacere di conoscere, gradualmente, quello che stavo studiando” (p. 68) considerare tutti i risvolti del processo. (p. 60) “ Penso a tutte le amiche che lavorano nel campo scientifico…. Ci accomunava l’attività sperimentale di osservazione… tutte a guardare qualcosa. Con pazienza. Con stupore.” Ogni volta che stavo davanti al mio amatissimo NMR, eravamo solo io e lui, avrei voluto solo fermarmi a provare tutti gli esperimenti del mondo, solo per il piacere di farlo, di ricreare e vedere il mondo attraverso quell’interazione…puro piacere di essere in quel momento in quella stanza con quello strumento. Il mio vero dispiacere di aver lasciato l’università è stato quello di aver lasciato il mio NMR, quando ho avuto quel finanziamento da 1 milione di euro, quando ho visto arrivare il magnete, quando l’abbiamo installato, un’emozione indicibile, mi sembrava il sogno di una vita finalmente realizzato…
Diceva Virginia Woolf che una donna deve avere soldi e una stanza tutta per se per scrivere romanzi. 
Io li avevo avuti…. e però poi non potevo quasi sedermi davanti al mio amato strumento, perché non ne avevo il tempo, dovevo stare a scrivere progetti, richieste di finanziamento, dare il mio contributo alla gestione del dipartimento per mostrare la mia riconoscenza di aver ottenuto tanto “Bisogna farsi un nome, essere invitati, distinguersi” il mio Rettore mi aveva detto: adesso hai lo strumento, ci vuole la ricaduta mediatica. E quindi bisognava scrivere, produrre articoli, di corsa, sempre di più, partecipare a conferenze (io patisco infinitamente a parlare in pubblico), cercare e ricevere finanziamenti…scrivere altri articoli su giornali sempre più importanti, tutto giusto, necessario, coinvolgente…il mio valore si misura solo con la mia produttività di carta stampata… ma uffa che incubo la ricaduta mediatica. “Gli alieni vivevano per il futuro. Per una vita futura, senza termine, anche se il loro corpo non avrebbe goduto di questa eternità. Gli alieni erano disposti a tutto….vivere è ben poca cosa per gli alieni. Non hanno il piacere profondo, totale dell’esistenza, pura esistenza”

Alice è in pensione.
(p. 56 e 74) “ Me ne sono andata. Alla fine mi sono allontanata anche da un destino scelto, quello di compagna di lavoro degli uomini. Sono in pensione! Per quanti anni ho corso? Per quanti anni le stagioni sono scivolate al mio fianco inascoltate, non viste? …A chi mi chiedeva: per quale motivo, non diedi alcuna risposta. Perché non la conoscevo…Dove trovare le parole per spiegare ciò che a me stessa era ancora confuso? Dovevo trovarle, prima di tutto per me stessa, per dare senso a tutta la mia vita.” …(p.78). Alice mi ha rubato le parole. “Se potessi vedermi, se potessi conoscermi!” in sintesi, si chiede Alice, sarà mai possibile uscire da questa lacerante bipolarità, scissioni, dissonanzeE’ vero in questi anni totalizzanti non c’è stato tempo per un pensiero, ogni esitazione, inquietudine sprofondava nell’anima come nelle sabbie mobili, trascinata in fondo, inesorabilmente. E adesso mi chiedo con Alice “Sto cercando di restituirmi una consapevolezza mai avuta?” Io so che sono andata via dall’università per un desiderio di calma, per la grande necessità di ricomporre parti di me, e in questo lavorio di ricomposizione, mi ritrovo in quelle parole “e’ tutto molto confuso, quanto mi sta accadendo… eppure nel mio profondo percepisco finalmente una grande calma. Una calma che è tacito movimento” (p. 40).  La rilettura del libro è una riscoperta fondamentale. 

Dentro l’istituzione, dentro i laboratori, ci si sente sole, e Alice è sempre sola nel mettere ordine ai suoi pensieri, a casa prima e a Parigi dopo. Quante volte mi sono detta che se non si riesce ad adottare modelli e comportamenti maschili non si riesce a essere parte dei processi decisionali… gli alieni sono maestri nel farti sentire irrilevante.

Nel 2003, a 51 anni sono diventata professore ordinario, la meta agognata per tutti gli alieni. Ma, rispetto agli scienziati maschi della mia generazione, sono diventata ordinario vecchissima!! Però si potrebbe anche dire che è stupefacente che una come me, in qualche modo così trasversale agli alieni, nonostante tutti i miei tentativi di essere ubbidiente, di essere un bravo soldatino, nonostante la mia insicurezza, nonostante la mia paura costante di non essere all’altezza, ce l’abbia “fatta”.

Nel 2012 me ne sono andata. Tra i tanti moltissimi motivi che mi hanno portato ad andarmene la goccia che ha fatto traboccare il vaso, l’evento meno importante, è stato che all’Università dove lavoravo mi ero data parecchio da fare per costruire un Centro delle grandi attrezzature scientifiche, perché pensavo che le grandi attrezzature scientifiche dovessero essere patrimonio di tutti ed era molto importante gestirle opportunamente. Fino a quando si è trattato di lavorare per costruirlo ho avuto ampi spazi, e così quando è stato fatto un bando per raccogliere le candidature per la presidenza ero assolutamente certa di essere nominata perché il mio curriculum era il più adatto, e pensavo che quel centro sarebbe stato un orgoglio per l’Università. Durante il Consiglio di Amministrazione, arrivati al punto della nomina, quando il Rettore ha fatto un altro nome, sono rimasta sbalordita…non avevo neanche preso in considerazione che potesse nominare un altro, ma non era una questione di avere o meno una posizione di potere, è il fatto  dell’invisibilità, non sei mai una di loro, mi sono sentita delusa, offesa… ma non solo. Ho anche tirato un grandissimo sospiro di sollievo, se mi avessero nominata sarei rimasta a fare il soldatino, ma ero veramente stufa di forzare la mia vita, e finalmente così avevo una buona scusa per me stessa per andarmene. Quella mattina ho scritto la lettera di dimissioni, con dieci anni di anticipo sui tempi concessi, sono andata in pensione, volevo sentirmi libera, non volevo più dar conto agli alieni.

Andarmene per avere il tempo di trovare e sperimentare un’altra parte di me e di lasciarla vivere, andarmene per trovare un’unità…E anch’io mi sono detta, come Alice, voglio ricominciare dai pensieri interrotti tanti anni fa… Però a dire il vero ho ricominciato a lavorare al CNR con un gruppo di donne meravigliose, con cui lavoravo da giovane, libera dall’obbligo della ricaduta mediatica, libera da una serie di vincoli, e ho scoperto che io so fare la ricerca, che io nei laboratori mi sento a mio agio, che lì c’è davvero la mia identità, che lì non c’è più una parte di me divisa, lacerata… ho provato anche il rimpianto di essermene andata, ma ho capito che avevo davvero bisogno, per una volta, di provare ad ascoltare un’altra parte di me, solo così avrei potuto ricompormi. Come dice Alice “Dentro di me avverto come lo sciogliersi di un nodo che intrecciava ostilità, invidia, ma anche amore, desiderio per quello sguardo maschile bramoso che, infine, qualcosa aveva pur capito” (p. 103)…. Avverto improvvisamente che la tensione che mi ha accompagnato.. si va sciogliendo. La mia solitudine è apparente, che sotteso c’è il filo di un discorso che va dipanandosi, scorgo una linea di orizzonte di saperi nuovi dei quali anche noi saremo protagoniste.

La ricercatrice del mio gruppo, dovrei dire del mio ex-gruppo, mi ha detto in questi giorni, c’era una persona sola di cui mi fidavo all’università e adesso è andata in pensione, devo combattere da sola, ma non era una lamentela…e a me ha fatto molto piacere questo riconoscimento di fiducia.

Posso solo terminare, per il momento, ringraziando Alice che davvero ci/mi lascia questa “preziosa eredità di pensiero e di consapevolezza”, che mi accompagna ora in questo nuovo percorso.

 

21 Febbraio, 2015